L’alluvione che devastò una rilevante parte del territorio fabriziese si consumò nei giorni tra la conclusione del dicembre 1972 ed i primi del gennaio 1973. Si può affermare che l’acqua a pieno cielo catturò Fabrizia per tutte le feste di quel lontano Natale. Così avvenne che, l’acqua e l’Epifania, tutte le feste portò via.
Finché non si ebbe coscienza di ciò che stava succedendo, al risveglio di ognuno di quei giorni, si aveva la sensazione che l’inferno, per attuare la sua opera di punizione, si fosse trasferito dagli inferi sul pianoro della montagna fabriziese. Per la verità, ciò che stava succedendo a Fabrizia, era comune a più località che, stranamente a macchia di leopardo, consumavano lo stesso dramma della paura e dell’impotenza sotto l’influsso dell’imponderabile e potente natura. La vicina Nardodipace era naturalmente sottoposta alla stessa furia della tempesta. Ad ogni alba di quelle lunghe notti, la speranza che fosse finita svaniva velocemente.
Finché non si ebbe coscienza di ciò che stava succedendo, al risveglio di ognuno di quei giorni, si aveva la sensazione che l’inferno, per attuare la sua opera di punizione, si fosse trasferito dagli inferi sul pianoro della montagna fabriziese. Per la verità, ciò che stava succedendo a Fabrizia, era comune a più località che, stranamente a macchia di leopardo, consumavano lo stesso dramma della paura e dell’impotenza sotto l’influsso dell’imponderabile e potente natura. La vicina Nardodipace era naturalmente sottoposta alla stessa furia della tempesta. Ad ogni alba di quelle lunghe notti, la speranza che fosse finita svaniva velocemente.
Quando, verso la metà delle feste, dall’alto del pianoro di Fabrizia, si iniziò a sentire il “grido dell’Allaro”, le persone iniziarono ad allarmarsi pensando al pericolo per l’incolumità personale. Fino al giorno della vigilia di capodanno vi era stato un farneticare di persone dimoranti in alloggi fatiscenti che cominciavano a guardarsi intorno percependo il pericolo incombente. La mattina di capodanno sembrò aprire uno squarcio di luce e porgere insieme la speranza che fosse finita e che il pericolo si fosse definitivamente allontanato. Ma non era vero, poiché insieme al grido dell’Allaro, di cui si avvertiva la poderosa presenza proprio grazie a quei pochi momenti di tregua, tornò prepotente il fragore della tempesta, che occupò quello ed il giorno successivo. In pochi giorni si consumò il dissesto idrogeologico di Fabrizia che fu foriero di gravi conseguenze socio-economiche, del presente e dell’avvenire, poiché quello fu proprio l’inizio della fine per la crescita di una comunità che aveva appena cominciato ad avvertire le potenzialità di cui era dotata e della possibilità di spiccare il volo. Bensì, quello fu l’inizio del declino. Immediatamente riprese una prima rinnovata ondata di emigrazione, che seguiva con pedissequa, definitiva determinazione quella degli anni Cinquanta e Sessanta; quella del periodo post alluvione fu, però, se così si può dire, ancora più forzosa, perchè imposta dalla contingenza e provocò uno spopolamento allarmante. A nulla valse il fenomeno che vide, negli anni Ottanta, un certo numero di rientri provocati dall’illusione circa l’avvento di una nuova era economica che, deduttivamente, doveva seguire alla fase della ricostruzione dell’abitato. L’auspicata nuova era però non si radicò in alcun modo, con la conseguenza che Fabrizia si ritrovò addosso una rinnovata fase di emigrazione, questa volta non più stagionale ma stanziale, soprattutto con destinazione Nord Italia.
La mattina in cui Fabrizia si svegliò con la pace del cielo, si ritrovò, quasi istantaneamente, smembrata di parte del proprio abitato. Il fenomeno franoso si consumò quasi in modo istantaneo: molte case del vecchio abitato (piccole casette di pochi metri quadrati, a cielo terra), che fino al perdurare delle violente precipitazioni riuscirono miracolosamente a restare in piedi, seppur con qualche lesione, al cessare della pioggia iniziarono a perdere pezzi ed a sbriciolarsi sotto gli occhi disperati dei suoi abitanti. Queste casematte, così com’erano state realizzate nell’antico insediamento urbano, attaccate l’una all’altra, avevano sopportato intemperie, retto a venti ciclonici ed anche a metri di neve e ghiaccio che i rigidi inverni fabriziesi consegnavano ai loro tetti, si dimostravano ora così fragili. La zona Terrarossa e Cannizza, Timponello e Cafonello, facevano parte di quell’agglomerato urbano molto datato e sede dei primi insediamenti urbani di Fabrizia ed avevano certamente sopportato grandi e piccole insidie dell’imponderabile. Ora, invece, la quantità alluvionale di acqua che scendeva dal cielo, con perseveranza indefesa per circa otto giorni, senza pietà, riuscì a penetrare nelle fragili mura delle vecchie case, costruite con un particolare materiale terroso detto “breste”, e faceva concludere il lungo ciclo di vita al vecchio abitato di Fabrizia nonchè a parte della sua storia. Gli abitanti, resisi conto della situazione, cercarono di salvare il salvabile asportando oggetti personali e poche suppellettili, da quelle case che stavano per lasciarsi andare per sempre. Emblematica l’espressione rassegnata di Don Raffaele Battaglia, rivolta all’Onorevole Tanassi, in visita a Fabrizia nell’occasione dell’invio degli aiuti dello stato, il quale affermò: “Ecco, Eccellenza, questa fu la mia casa”. Infatti, il dramma non si consumò solo a carico delle casematte del vecchio abitato originato dai pastori, perchè l’alluvione ben più potente e temeraria di quanto all’inizio non si fosse immaginato, mostrò, giorno dopo giorno, le conseguenze ulteriori. Cedevano anche edifici più consistenti, come quelli dei Battaglia, dei Carè, dei Franzè e dei Doria, che erano strutturati con in pietra e materiali più resistenti. Inoltre, all’avanzare dei giorni e dall’osservazione attenta delle squadre dei volontari, dei militari, dei tecnici del Genio Civile e dell’Università della Calabria, composta da un nutrito gruppo di studio della Facoltà di Ingegneria di Cosenza, si scoprì che l’alluvione aveva fatto dono di conseguenze per una buona parte anche dell’abitato Alto. Tutta la parte a sud-est della zona Terrarossa, e, a salire tutta la parte a monte del torrente Molini, affacciata a sud-ovest, scopriva tutta la sua fragilità ed evidenziava un grave dissesto provocato da numerose frane. Si ricorda che la zona era stata altre volte interessata in modo grave da inclemenze atmosferiche.
La portata dell’evento fu verificata nella sua gravità allorché dalla località “Cellia”, frontale Sud del pianoro su cui sorgeva Fabrizia, si poterono avvistare le pesanti frane che interessavano sia il territorio a ridosso della medesima località Cellia, sia quelle alle falde dell’abitato posto sul costone che sovrastava il torrente Molini. Si capì allora che ancora i danni erano tutti da rilevare. Naturalmente molto grave e pesante fu pure la situazione degli abitanti delle campagne, isolati dalle grandi frane, pesanti smottamenti di terreno che scendevano a valle quasi come slavine. Nessuno poteva dare aiuto se prima non fossero migliorate le condizioni atmosferiche. Diversi contadini erano rimasti lì e nessuno sapeva in che condizioni fossero. I familiari che erano rimasti nel paese allertarono le autorità, comunicando il fatto che i loro congiunti erano isolati nelle campagne, sicuramente in pericolo. Non appena le condizioni atmosferiche lo consentirono, furono messi in atto soccorsi per il recupero delle persone che, come sospettato, erano state tagliate fuori da qualsiasi via di uscita. Infatti, solo mezzi di elisoccorso poterono raggiungere e prelevare, non senza peripezie, i poveri contadini rimasti intrappolati nelle loro terre.
I soccorsi, grazie a Dio e grazie all’attivarsi tempestivo delle autorità comunali e statali, all’abnegazione del personale e dei cittadini che spontaneamente si prestarono a rendere operativi gli aiuti che da più parti provenivano, furono adeguati ed idonei ad evitare l’aggravarsi dell’evento soprattutto per le vite umane. Giunsero subito, infatti, gruppi di volontari organizzati provenienti da più parti della Calabria e da altre Regioni, che si attivarono con grande spirito di solidarietà e sacrificio in aiuto alla popolazione.
Il lavoro dell’apparato comunale fu veramente incisivo ed efficace. Nessuno risparmiò energie per aiutare le persone. Nessuno andava a dormire se non fosse stato completato il piano della giornata, che riguardava non solo l’alloggiamento dei senza tetto nelle strutture pubbliche e la distribuzione dei viveri, ma anche il reperimento di alloggi liberi nella parte sana del paese e la loro requisizione temporanea allo scopo di assegnare un letto ed un tetto alle numerose famiglie senza casa. Alcuni erano riusciti a trovare ospitalità nelle case di parenti, ma naturalmente gli alluvionati erano tanti (circa 470 famiglie), per cui si rendeva necessario provvedere all’organizzazione della mensa. Infatti, nel cortile della Scuola Elementare fu allestito un campo cucina per dare ristoro a quanti non erano in grado di provvedervi autonomamente.
Questo scritto naturalmente non intende per nulla esaurire l’argomento, bensì lasciare una semplice testimonianza per non dimenticare. Far conoscere alle nuove generazioni un trascorso dei loro genitori e nonni che ha cambiato la vita della comunità, può risultare gradito ed è sicuramente stimolante. Per questo motivo spero che questo scritto possa essere uno spunto per chi voglia raccontare qualche caso emblematico, da iscrivere nei ricordi di Fabrizia, per offrirlo come ricordo alle generazioni future.
Firmato: una testimone